La Pezzata rossa d’Oropa compie 150 anni: è nata così
[da “Eco di Biella” del 12 agosto 2024]
Le iniziali “T. F.” che chiudono l’articolo di questa pagina sono quelle di Tommaso Ferrero della Marmora (1826-1900) che, tra i suoi variegati interessi, oltre a quello dei cavalli, ebbe anche quello per i bovini biellesi. Nel 1877 fu uno dei sostenitori del Concorso Agrario Regionale di Pavia dove le manze biellesi si fecero valere. Nel 1895 firmò, oltre a un articolo su “L’Eco dell’Industria” (15 dicembre) in polemica con tale professor De Alessi reo di non essere abbastanza ferrato sul bestiame locale, il saggio di cui sotto. Saggio ripreso da “L’Italia Agricola -Giornale di Agricoltura” del giugno del 1896 nel quale il tema del miglioramento dei bovini del Biellese fu trattato con cognizione di causa dall’agronomo e zootecnico professor Bartolomeo Moreschi, docente universitario a Perugia e in altri istituti italiani, nonché dirigente del Ministero dell’Agricoltura. Uno dei primi tentativi compiuti per raffinare la “neonata” pezzata rossa d’Oropa fu quello attuato dal Comizio Agrario Biellese con l’importazione di un toro olandese fin dal 1875-1876 per aumentare la produttività lattifera delle mucche nostrane. Il “Manuale del macellaio e del pizzicagnolo” del cav. Giuseppe Lancia (1892) tesseva i più alti elogi della pezzata rossa d’Oropa.
È la tipica situazione che si verifica quando si ha sempre davanti al naso una cosa e la si dà talmente per scontata che non ci si fa nessuna domanda a riguardo. C’è, c’è sempre stata, probabilmente continuerà a esserci. Ho il ricordo delle mucche rossicce col muso bianco fin dalla prima infanzia. A Tollegno, zona Filatura, c’era un vecchio pastore, il “Toni d’la casin-a”. Teneva le sue bestie nell’antico cascinale nel prato tra l’allea del Lanificio di Tollegno e il Cervo. Lui e i suoi bovini mansueti erano una presenza costante. La mia idea di mucca collima esattamente con le pezzate rosse d’Oropa del Toni. Poi ho scoperto quell’iconografia che parte da Lorenzo Delleani e che arriva alle fotografie di Gianfranco Bini passando per le cartoline con la piccola mandria rosso-bruna sullo sfondo del santuario o sugli alpeggi delle vallate biellesi. Tuttora, di tanto in tanto (perché la pastorizia nostrana non è più quella di una volta), si vedono le belle bovine color ruggine lungo le mulattiere, oppure sul Prato delle oche alla Fiera di San Bartolomeo. Ma da quando esiste la pezzata rossa d’Oropa? In altri termini: chi l’ha “inventata”, in quale momento storico e perché? Secondo il sito agraria.org (le cui informazioni sono in gran parte confermate da altre fonti on line), la nostra mucca costituisce una “razzetta” la cui “zona di origine e diffusione è la Valle Elvo in provincia di Biella. Viene denominata razzetta per sottolineare che l’area di diffusione è molto circoscritta. Analogamente alla Simmental, sembra derivi dal bestiame pezzato del Nord Europa introdotto in Italia dai Burgundi e Borgognoni nel V secolo. È considerata una sottorazza della Valdostana insieme alla Valdostana pezzata rossa (la più rappresentata) e Valdostana pezzata nera”. Bene. Ma si chiama pezzata rossa d’Oropa fin dal V secolo? No. Allora in quale contesto si è formata la consapevolezza di tale identità geolocalizzata? Per avere una risposta bisogna tornare indietro nel tempo fino al 1874. Nel settembre di quell’anno si stava definendo la partecipazione biellese al Concorso Agrario Regionale di Novara in programma tra il 20 e il 25 ottobre. Secondo “L’Eco dell’Industria Biellese” del 27 settembre, a tre giorni dalla scadenza delle iscrizioni, l’elenco dei biellesi che avevano chiesto di partecipare era piuttosto esiguo. “La lista è magra, magra assai, non ostante gli infiniti eccitamenti della Commissione ordinatrice e della bene merita Direzione del nostro Comizio Agrario. Ma su ciò non vogliam ancor dire l’ultima parola, avendo fiducia che nei tre giorni che vi rimangono la lista medesima si aumenti”. Gli iscritti erano: Grato Ramella del Favaro, che avrebbe esposto una sua manza, i pralunghini Giovanni Ottino, idem come sopra, Giuseppe Ramella, due vacche e una manza, Antonio Ramella-Trafighet una manza, e Giuseppe Gayer di Biella una puledra, più alcuni altri con differenti attrezzi e prodotti agricoli. Martedì 20 ottobre la fiera novarese aprì i battenti alla presenza del Principe Umberto, figlio di Vittorio Emanuele II, e del Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Gaspare Finali. L’auspicio de “L’Eco dell’Industria” si era in (minima) parte avverato visto che si aggiunse qualche altro espositore biellese. Quei pochi che scesero a Novara fecero bene, perché ottennero un certo successo, se non altro per i bovini. Francesco Coda Zabetta (probabilmente di Cossila o del Favaro) fu premiato con una medaglia d’oro e 300 lire per una sua giovenca da 1 a 2 anni. Giovanni Ottino e Antonio Ramella Trafighet con la medaglia d’argento e 250 lire il primo, e 200 lire il secondo. Medaglie di bronzo per Grato Ramella (e 200 lire) e Giacomo Acquadro (e 100 lire). Che quelle bestie fossero pezzate rosse d’Oropa è facile da intuire, ma c’è un dato documentario che attesta che quella partecipazione al Concorso Agrario Regionale di Novara è stato un atto di nascita. “Le razze bovine, predominanti in tutto il territorio della provincia che illustriamo, sono due, vale a dire la piemontese di pianura o razza di Carmagnola e quella detta di Oropa, dal luogo della sua origine o della maggior diffusione. La prima è rappresentata da animali di grossa mole, dal manto grigio rossiccio e con corte corna; l’altra, per le forme ed il colorito macchiato del pelame, si avvicina ad alcune delle più distinte razze montanine del centro d’Europa”. Questo si legge sugli “Annali di Agricoltura, Industria e Commercio” dedicati ai concorsi agrari del 1874 (Roma, 1877). La stessa fonte segnala che le giovenche e le vacche presentate a Novara da quei pastori biellesi appartenevano “al tipo delle razze macchiate bianco-gialle del Vallese e della Svizzera occidentale, da cui differiscono per minore corpulenza, ma sono poi per se stessi una distinta e bella razza lattifera con regolari e giuste con formazioni, dotati di molta finezza e di pari attitudine a dar latte. Come tali essi forniscono una prova ulteriore della possibilità che le nostre valli alpine coi loro pascoli succulenti e feraci possono quando che sia sostituire le valli svizzere nel somministrare al consumo della pianura l’annuale contingente di animali da latte. La cura assidua e la diligenza che gli allevatori d’Oropa prestano al loro bestiame, non che il modo con cui sanno sceglierlo e governarlo, ci indica la via nella quale si può raggiungere un così utile intento”. E i loro sforzi erano stati giustamente riconosciuti dalla giuria della kermesse novarese. L’esordio della “razzetta” oropea si fece notare. Sul primo volume (1874) del mensile “L’Agricoltura Italiana” (pubblicato dall’Istituto Agrario di Pisa), in occasione dell’evento novarese fu osservato che “la prima comparsa del distinto bestiame lattifero dei monti d’Oropa esposto a Novara, fu per molti poco meno d’una rilevazione. Nei monti del Biellese e nella valle del Cervo si alleva una varietà di bovini che non ha nessun riscontro colle razze con termini della pianura piemontese e nemmeno colle altre alpine della valle di Sesia e del gruppo orientale lombardo. Sono bovini di mediocre taglia con manto piva bianco e giallo, dotati di forme molto regolari e di singolare finezza, aventi in modo distinto tutti i caratteri di un eccellente bestiame da latte. Mantenuti con molta diligenza da contadini piccoli coltivatori e proprietari di quel contado alpestre essi servono al commercio col Vallese e colla Francia assai più che colle provincie finitime, e soltanto i bestiami riformati e da macello si consumano a Biella, che è capoluogo di quello sbocco alpino. Il primo giudizio che ispira l’esame delle forme e delle qualità di questo bestiame è seguito dal desiderio che esso sia più conosciuto ed anche ne venga esperimentato l’allevamento al piano in sostituzione del costosissimo bestiame svizzero, ciò che potrebbe avvenire sicuramente per molti contadi. Più piccolo, ma più gentile della razza Bernese e Friburghese, esso si assomiglia per manto e per regolarità di forme alle migliori razze lattifere delle Alpi tirolesi e della Carniola, e non ha migliore riscontro dei celebri Kühländer della Moravia, che ottennero le prime distinzioni all’esposizione mondiale, come bestiame lattifero per la piccola coltura. La razza di Oropa ebbe però anch’essa i primi onori al Concorso di Novara, e sarebbe già un risultato non dispregevole se ciò valesse a farla conoscere agli incettatori di bestiame da latte”. Era la prima volta che, almeno tra gli addetti ai lavori, i bovini delle vallate biellesi assumevano una denominazione d’origine propria. Nel giro di qualche anno la pezzata rossa d’Oropa era già diventata più che nota non solo per gli esperti del settore. Sul finire dell’Ottocento ci fu chi volle addirittura precisare che, nel Biellese, di sottorazze bianco-rosse ve n’erano ben due. Si legga allora il saggio pubblicato su “L’Agricoltura”, quindicinale del Comizio Agrario del Circondario di Biella, il 20 dicembre 1895. “Due sono le razze veramente biellesi, quella pezzata bianco rossiccio che abita nell’estate i monti di Oropa, Pollone, Sordevolo, Graglia, Bagneri; e l’altra più piccola detta di Camandona, di pelame rossiccio-scuro, alcune quasi nere, con qualche placca bianca, specialmente al petto ed al ventre; questa razza è abitualmente in estate sui monti che dividono il Biellese dalla Valsesia”. Lo firmò un certo “T. F.”. Per dare un nome alle iniziali, si legga in cima alla pagina. Nel frattempo, buon 150° anniversario alla pezzata rossa d’Oropa.
Pezzata rossa d’Oropa: un futuro incerto tra Delleani e folklore
[da “Eco di Biella” del 16 settembre 2024]
La “rinascita” della Fiera di San Bartolomeo a Oropa, arrivata alla 44a edizione (purtroppo il raduno zootecnico è venuto meno a causa della Blue tongue), ha dato una nuova prospettiva all’allevamento della pezzata rossa. L’Associazione Agro Montis Oropense ha avuto e ha il grande merito di credere al valore della zootecnia nella Valle di Oropa e di proiettarla nel futuro. Quarant’anni fa, all’epoca della costituzione dell’Agro Montis, 6.000 capi di bestiame della “razzetta” d’Oropa rappresentavano, malgrado il declino verificatosi nei decenni precedenti, un importante patrimonio non solo zootecnico, ma anche antropologico, culturale e sociale. Lo sottolineava anche l’agronomo professor Cesare Ciconi in un opuscolo edito dall’Istituto Bancario San Paolo nel settembre del 1980. Uno scritto da rileggere anche per le sue critiche, tanto precise quanto costruttive, circa l’atteggiamento “chiuso” alla modernizzazione e alla razionalizzazione degli allevatori di allora. Il mondo è cambiato e i pregi di un presidio di questo tipo sono sempre più evidenti in un sistema globale che premia le “nicchie” locali di qualità. L’avvenire della pezzata rossa è la promozione della sua unicità nel contesto unico di Oropa e delle valli biellesi.
Il 12 agosto scorso abbiamo annunciato una curiosa ricorrenza: il 150° anniversario della pezzata rossa di Oropa, nata ufficialmente nell’autunno del 1874. Un secolo e mezzo è un bel traguardo, ed è interessante approfondire che cosa è successo in questo lungo lasso di tempo. La storia della mucca color ruggine delle nostre montagne è importante come “animale totemico” di una realtà non solo zootecnica, ma anche antropologica, cultuale e sociale di un Biellese diverso da quello più noto, quello delle fabbriche tessili. La “razzetta” oropea, battezzata a Novara nel 1874, ebbe subito una certa riconoscibilità. Già nella “Statistica del bestiame”, edita dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1875, si legge che “quella detta di Oropa nella valle del Cervo, ci rappresenta nella sua bellezza il tipo di alcune delle più distinte razze montanine macchiate del centro d’Europa”. Il XIX secolo si chiuse con un crescendo di affermazioni. Quella di Oropa fu una “scoperta” bovina di portata non solo locale. La vacca da medaglia d’oro del 1874 fu addirittura fotografata da Vittorio Besso (fotografia degna di essere colorata!) e la sua discendenza, più di vent’anni dopo, era ancora gelosamente custodita dal fittavolo della cascina delle Cappelle, Francesco Coda Zabetta. Eppure, Tommaso Ferrero della Marmora scriveva sull’“Eco dell’Industria-Gazzetta Biellese” del 19 dicembre 1895: “Si dice che i vaccari sono ignoranti; ciò è vero sino ad un certo punto; senza tanta letteratura, conoscono assai il loro tornaconto; sanno benissimo che il toro deve essere figlio di buona lattifera; ve ne sono di vecchi che hanno sempre continuato il mestiere; se non vi trovassero il loro vantaggio, a quest’ora o sarebbero andati in rovina o avrebbero smesso. Certo non è escluso che possano far meglio, soprattutto per la confezione dei prodotti del latte, ma bisogna pur dire a loro discolpa che le cascine in generale sono mal disposte per questo scopo. Sentii anche dire: i vaccari d’Oropa se la cavano bene perchè hanno i fitti a buon mercato: ciò non è esatto; anzi io vidi scritto da persona competente e buon conoscitore di pascoli e boschi, che allo stato in cui sono le pasture attualmente, i fitti sono troppo cari”. Il quadro non era uno di quelli bucolici di Delleani, ma appare onesto rispetto a un contesto in cui non poteva bastare una manciata di medaglie ricevuta in un’esposizione a migliorare la vita spesso grama dei pastori. E se in montagna, in qualche modo, si campava, in basso, in città, la strada presa era un’altra. C’è una cartolina postale dei primi del Novecento che illustra benissimo la situazione. Al posto dell’antico “Prato della fiera”, nel 1882 era sorto il Maglieficio [si scrive così] Antonio Boglietti. Biella aveva scelto l’industria e gli spazi dell’atavica comunità rurale erano stati edificati. Le manze potevano pascolare nell’area urbana solo in rare occasioni, come quella della Esposizione Circondariale degli Animali Bovini del 2 maggio 1909, organizzata dalla Società Zootecnica Biellese nell’ambito di una ambiziosa kermesse agricola che ebbe un discreto successo di pubblico. Un lustro prima, a Pollone, la Commissione Zootecnica Biellese aveva aperto la via di quelle fiere locali anche e soprattutto per mantenere in vita un “mondo” che, nelle vallate biellesi, rischiava di scomparire perdendo una guerra impari con gli opifici. Il Santuario di Oropa, fin dal 1911, aveva inteso rilanciare, anche in senso igienico-sanitario, la produzione casearia, ma non si ottennero i risultati sperati e il progetto della latteria cooperativa si concretizzò in una trattoria (cioè il Valfrè). Il Fascismo, dopo la Grande Guerra, raccolse una eredità complicata. Già nel 1924 fu evidenziata la necessità di migliorare la razza bovina autoctona, anzi, prima ancora, di preservarla da un progressivo “imbastardimento” motivato dalle pessime condizioni in cui versavano le piccole mandrie che brucavano le valli dell’Elvo, dell’Oropa e del Cervo. In verità, le azioni più rilevanti non furono condotte in quota, ma in pianura e non certo con sistematicità, bensì per iniziativa di privati. Da “Il Popolo Biellese” del 3 settembre 1928 si apprende che “uno dei meriti di Pietro Mercandino agricoltore è appunto quello di aver rimesso in auge una razza bovina che andava perdendosi e imbastardendosi: la razza d’Oropa. La stalla — con annesso caseificio — della tenuta Mercandino, ampia, arieggiata, scrupolosamente e quotidianamente disinfettata, è un vero modello del genere. In essa vi sono circa cento capi di bestiame in piena efficienza, tutti indistintamente premiati”. Ma la tenuta Mercandino si trovava tra Vergnasco e Verrone, non sotto il Mucrone. Ai primi di ottobre di quello stesso 1928 si tenne la prima seduta pubblica del Consiglio Provinciale dell’Economia in quel di Vercelli e si discusse di miglioramento della pezzata rossa, ma la discussione rimase tale. I fascisti ambivano a tenersi buoni i “rurali” (che tanto il Duce prediligeva), ma non era affatto semplice. Nel 1932, con l’autorevole benedizione dell’agronomo Vittorino Vezzani, rialmossese d’adozione, che univa competenza tecnica zootecnica a suggestive affinità con Julius Evola (si veda la pagina di questo giornale del 15 ottobre 2018), l’Istituto Zootecnico Caseario per il Piemonte prese a cuore il destino della mucca oropea che rischiava di scomparire in senso genetico attraverso impure monte taurine prive di pedigree. Fu anche grazie a tali attenzioni che, nel 1935, si arrivò alla ideazione di una “stazione-vivaio” a Oropa, al fine di purificare al massimo la progenie e di incrementare il numero degli esemplari, per “costituire la razza Biellese per eccellenza e imporsi in tutte le vallate e competere colle migliori razze svizzere”. La selezione eugenetica finalizzata, se non al suprematismo italico, quanto meno a non risultare inferiori, era ben inserita in un milieu di sanzioni economiche che imponeva al regime di offrire agli italiani un bicchiere (di latte) mezzo pieno. Quindi, purezza razziale. E finchè si tratta di bovini… L’ordine di scuderia, anzi di stalla, era questo: “dobbiamo aumentare ovunque, ma specialmente qui nel Biellese ove non mancano i pascoli, i bovini dando sviluppo alle migliori razze che già furono e sono pregiate come la razza d’Oropa, ed utilizzare meglio i sottoprodotti del latte”. Autarchia zootecnica. Poi ci fu l’ultima guerra. Nel 1948, con la pace e la ripresa economica, anche la pezzata rossa di Oropa tornò d’attualità. La Sezione Zootecnica del Comizio Agrario Biellese (presieduta dal dott. Augusto Robiolio) commissionò uno studio per definire lo stato delle cose e prospettare una effettiva ripresa dell’allevamento in termini qualitativi. Le “Indagini sulla razza bovina di Oropa” furono redatte da Arturo Magliano, docente dell’Università di Pisa. Nel 1948 era ancora da sciogliere tanto il tema della selezione della razza quanto, e soprattutto, se ne valesse la pena. Il professor Magliano era convinto che la pezzata rossa di Oropa meritasse una chance, ma a patto che si operasse in scienza e coscienza puntando al recupero e al rilancio di quel “vecchio bovino d’Oropa”, tutto rossiccio e con la testa bianca di delleaniana memoria, un tipo “puro” sempre più raro sui pascoli delle montagne biellesi occidentali. A distanza di anni, nel 1965, nel settore specifico nessun sensibile mutamento. In un convegno tenutosi presso l’UIB, il geometra Mario Giachino relazionò circa una situazione tutt’altro che positiva nella quale i pastori nostrani continuavano ad allevare le vacche oropee più per affetto che per profitto, più per abitudine che per prospettiva. La pezzata rossa, così com’era in quel frangente, rendeva ben poco in termini caseari e ancor meno dal punto di vista della eventuale macellazione. Servivano, e velocemente, incentivi economici e una commissione tecnica per definire la linea da seguire. Ma si rimase sul piano teorico. Il trascorrere del tempo non ha giocato a favore della pezzata rossa e fa effetto leggere su “il Biellese” del 20 aprile 1984 che dal “Comune di Pralungo è partita l’iniziativa di portare la gente a riscoprire valori, tradizioni, fatiche che alcuni uomini, alcune famiglie con tenacia ancora perseguono: l’allevamento delle mucche «razza pezzata d’Oropa» e la produzione di cibi genuini derivati dal latte”. Ecco, quarant’anni fa si era già nella malinconica fase della “riscoperta”. Ciò che fino a qualche decennio prima era economia, si era tramutato in folklore domenicale da proloco. E oggi?