[di Danilo Craveia, da “Eco di Biella” del 24 ottobre 2022]
380mila mq di terreno coltivato spazzati via tra il 1705 e il 1706.
Il Cervo infierì sui campi e i prati in regione Isola, tra Biella e Chiavazza.
Büre disastrose: alveo allargato di 13 metri, solchi profondi un trabucco.
I danni causati dalle piene del Cervo sono un fenomeno storicizzato nei secoli. All’inizio del Settecento si verificò una situazione particolarmente grave. I rilevamenti del novembre 1707 di cui si tratta nella pagina originarono un provvedimento sovrano tale per cui una quota (minima, ma non indifferente) dell’imposizione fiscale sulla Città di Biella fu defalcata. Le alluvioni del 1705-1706 avevano privato la comunità di una porzione di territorio che corrispondeva a un segmento dell’imponibile complessivo quantificato nell’ordine di poco meno del 2,5%. L’esenzione di analoga portata sarebbe rimasta in vigore per dieci anni, includendo già il 1707. Il fisco ducale avrebbe coperto i debiti del Comune di Biella verso alcuni creditori privati che avevano diritto di riscossione, ma avrebbe anche diminuito l’esazione del sussidio militare, del fuocatico e del comparto del grano. Il duca Vittorio Amedeo II aveva così stabilito in data 25 marzo 1708 dove aver ricevuto la supplica ufficiale del 15 febbraio basata sulle misure prese nel novembre del 1707. Quell’alleggerimento della pressione fiscale si sommava a un precedente regio divisamento (1701) allora ancora in vigore originato dai danni arrecati da tempeste di inaudita violenza.
Prima non era stato possibile. C’erano i francesi, c’era la guerra. Giusto un anno prima, sul finire di agosto del 1706, Pietro Micca si era sacrificato per salvare Torino e i Savoia. Il Piemonte aveva ottenuto una vittoria contro la Francia del Re Sole, ma a Biella c’era stata un’altra guerra che aveva fatto registrare una dura sconfitta. La nemica, materna e matrigna, era stata la Natura. Il nemico, paterno e patrigno, era stato il Cervo, e con esso anche il Bolume, l’Oremo “et altri rivi discorrenti nel finaggio della Città di Biella”. Nel 1706 e negli anni precedenti si erano verificate anomale e disastrose “escrescenze” dei corsi d’acqua che dalle valli discendevano verso la città. In modo particolare era stato il Cervo a provocare “corusioni et inondationi di quantità di beni”. Una quantità così rilevante da infliggere una ferita al reddito di non pochi cittadini biellesi e, di conseguenza, alle già esangui finanze comunali. Ecco perché, a fronte della perdita fisica di quei beni “cattastati et afflitti da pagamenti” si doveva far di tutto per “ottenere l’opportuno diffalco delle debiture ducali e militari nel minor dispendio che sarà possibile”. Questa storia è tramandata da due fascicoli dell’Archivio Storico della Città di Biella conservati presso l’Archivio di Stato di Biella. Quelle antiche carte dicono che il 2 novembre 1707 Sua Altezza Reale Vittorio Amedeo II, futuro primo re di Sicilia e poi di Sardegna, rispose con magnanimità alla supplica dei biellesi invitando la Regia Camera dei Conti in Torino sedente a prendere in benigna considerazione il grido di dolore di quei suoi sudditi che, nelle recentissime vicende belliche, si erano tanto distinti.
Il Generale delle Finanze Giovanni Battista Gropello, conte di Borgone, non poté fare altro che attenersi alle regali disposizioni, ma occorreva una verifica dei danni, ossia una quantificazione effettiva del reddito trascinato via della furia dei torrenti biellesi. Fu quindi incaricato, in data 5 novembre, l’Avvocato Patrimoniale Generale Giovanni Antonio Frichignono, conte di Castellengo, affinché seguisse di persona le operazioni di misura e stima. L’area interessata dalle esondazioni del Cervo era quella dell’Isola, ossia quella porzione di territorio compresa tra l’odierno Lanificio F.lli Cerruti e il Comune di Candelo, tenendo presente che Chiavazza era una comunità a se stante, cioè non ricompresa nel “finaggio” della città di Biella. Il torrente segnava il confine con Chiavazza, ma una parte di terreno sulla sponda chiavazzese/viglianese (più o memo dal tiro a segno alla Pettina) era comunque di spettanza della Città di Biella. Uno dei testimoni convocati per assistere i misuratori, certo Ottavio Rossino, un “armuriere” (armaiolo) di Chiavazza affermò sotto giuramento che il letto del Cervo, in quel tratto del suo corso, non era mai stato più largo di circa sei trabucchi, cioè all’incirca venti metri. E segnalò che l’acqua scorreva in un unico letto. Con le sue settantatré primavere era un teste affidabile. Ed è per questa ragione che la sua deposizione risulta piuttosto impressionante. Il paesaggio, in quella zona, era cambiato profondamente. Pose la mano sulle Sacre Scritture e le sue parole furono messe a verbale dal segretario Masserio. “Sendo seguite nelli due anni prossimi scorsi due straordinarie crescenze del fiume Servo, qual scorre sovra le fini della presente città e di longo in longo la regione detta dell’Isola del Servo, qual è una delle migliori tenute di questo finaggio per esser stata, avanti che fosse corosa, composta di prati, canepali, campi e pochi gabbij, hanno talmente devastato essa regione che a riserva d’alcune poche isole prative et altre poche strissie che sono rimaste le prime in mezzo alli siti corosi e queste alle ripe laterali de medesimi il rimanente di detta regione è stato initieramente esportato dal detto fiume, sendosi rimaste ne siti corosi le nude pietre e giara con tal profondità e tali cumuli di pietre che sarà quasi impossibile che possino mai più tali siti ridursi a colonia”.
Quei campi, quei canepali, i prati e i gabbi, ovvero aree ghiaiose e sabbiose da cui trarre materiali da costruzione, abitualmente inondate dalle normali piene del fiume, non sarebbero più stati come prima. Senza contare che le pietre lasciate sui terreni non dilavati li avevano ridotti a gerbidi. Per non parlare delle rogge: oltre alle opere di presa spazzate via e ai canali distrutti, c’era la nuova conformazione del greto, ben più infossato di quanto fosse mai stato, quindi l’acqua non sarebbe entrata negli incili delle vecchie bealere. Niente derivazioni, niente adacquamenti e senza irrigazione, l’“herba si seccherà prima che possi maturare”. L’alveo si era allargato di almeno quattro trabucchi (tredici metri), ma il problema vero stava nelle ramificazioni: non più un corso principale, ma diversi bracci di minor portata, spesso dei semplici solchi, ma profondi un trabucco (tre metri). E l’antico corso, quello che passava sotto la ripa sulla cui sommità si stende il falsopiano di Biella, era stato radicalmente modificato. Il Cervo lo aveva scavato in più punti tanto da rendere la sponda una successione di “valancate” franose e impraticabili e del tutto inutili per qualsivoglia coltura. Gli alberi erano stati quasi tutti sradicati e la corrente impetuosa li aveva inghiottiti. Quei pochi rimasti, per lo più salici, stentavano sulle isole formatesi a causa delle ripetute ed eccezionali büre. La “qualità fruttifera” di quella parte di territorio di Biella era solo più un ricordo. Il 14 novembre 1707, il conte Frichignono guidò il primo giro di ispezione. Tre ore dopo l’alba, alle quindici ora d’Italia, il gruppo di periti e di testimoni affrontò il terreno oggetto di perizia. I danneggiati di maggior riguardo furono elencati per primi. Il chierese marchese Tana di Santena (suoi cessionari erano le reverende monache carmelitane di Chieri, il canonico Pietro Semenzo e il tesoriere Defendente Danese), il conte Ferraris di Innsbruck, il marchese Gattinara, il conte Francesco Tomaso Ricardi di Zubiena, le eredi Vialardi, gli eredi Vercellis, il conte Scaglia ecc. Ma c’erano anche altri piccoli proprietari che, di certo, avevano subito perdite più significative, proprio perché non nobili né titolati. Il primo vero sopralluogo tecnico, però, avvenne il giorno successivo, 15 novembre, stessa ora. Al conte Frichignono fu affiancato l’avvocato Ignazio Maria Bonardi di Cossato e a loro si unirono l’agrimensore Giovanni Antonio Orso di Candelo e Francesco Beltramo, “custode de cattastri di detta città”. Le misure iniziarono al confine tra Biella, Chiavazza, Candelo, Vigliano e Valdengo, “in un posto ove si vede una pietra piantata al tralcio d’un albero tagliato” e usando, per partire, il traguardo visuale del campanile della chiesa parrocchiale di Ronco e la direttrice di una non meglio specificata “strada della Bicocha”.
Si trattava, in avvio, di definire dove corresse la linea di confine tra le varie comunità, per evitare che le sospirate esenzioni non fossero del tutto pertinenti ai rispettivi territori. Fu deciso che, almeno per Chiavazza, avrebbe fatto fede il catasto chiavazzese del 1623 nel quale si erano demarcate le linee di termine con Biella. E a proposito di catasti, nei giorni seguenti (i rilievi si protrassero fino al 19 novembre) il custode Beltramo portò sul campo il “librone” per antonomasia, ovvero il catasto della Città di Biella del 1678. Un volume di una certa dignità che scendeva in campo come un anziano generale. Quattrocentosessantadue pagine di toponimi, valbazioni, estimi, accolonnamenti, allodialità, immunità e così via. Il vetusto “cattastro” lasciava gli archivi della sede municipale del Piazzo per dare manforte in quelle “pratiche di campagna”. Quel libro, “coperto di cartone greggio ligato in carta reale bastarda” doveva mettere un po’ di soggezione. Così come il computo complessivo di quanto il Cervo aveva strappato via durante le ultime alluvioni. Non meno di cento giornate. Trecentottantamila metri quadrati di terreno. Un’area di quasi due chilometri di lunghezza e di circa duecento metri di larghezza lungo l’asta fluviale era sparita o così tanto rovinata da non poter più essere coltivata. Forse i periti calcarono un po’ la mano e la raccontarono un po’ più triste di quel che era per muovere a pietà il duca di Savoia, ma non c’è ragione di credere che la situazione non fosse comunque drammatica. I rilevamenti e le relazioni dei periti andarono a buon fine. In cima alla pagina potete scoprire come.